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LE CONTROCULTURE E LA FOTOGRAFIA Intervista a Claudia Pajewski, Revolver 20 novembre 2009

Parlaci dei tuoi primi contatti con il mondo della fotografia. Quando hai preso la decisione di divenire una fotografa?
Ho iniziato senza consapevolezza. Semplicemente mi piaceva. Non essendo figlia d’arte e non avendo fatto un percorso d’accademia non sapevo neanche cosa significasse. La consapevolezza è affiorata lentamente, grazie all’incontro con una fotografa eccezionale. Si chiamava Sebastiana Papa. Avevo vent’anni, lei sessantotto. Passavamo giornate bellissime: mi raccontava le esperienze più incredibili, il Maggio francese, l’India degli anni ’60, l’incontro con intellettuali come Pasolini, Yehoshua, Grossman… Ogni racconto era una lunga avventura. Mi dava un piccolo tema fotografico, io andavo in giro per Roma a scattare in pellicola bianco e nero, poi scrivevo una pagina su quello che avevo osservato. È stata la mia Maestra, ma come ogni allieva ho finito col prendere una strada molto diversa. A partire dall’uso del colore e del digitale. Lei era una purista del bianco e nero e fotografava il silenzio, l’aspetto mistico dell’essere umano. Io fotografo nel rumore e sono ancora molto incosciente. Per la tecnica invece il mio maestro è stato Roberto Carotenuto, della “Scienze e Tecniche” di Roma. Terminati gli studi in Psicologia era già qualche anno che facevo gavetta e sono andata col book sottobraccio in cerca di lavoro. L’anno scorso è arrivata la prima collaborazione continuativa e retribuita, con Repubblica XL.

 

Studiando le tue immagini ho riscontrato una certa predisposizione a rappresentare temi di attualità e di interesse comune, come l’omosessualità, le controculture, i movimenti di piazza.
I media italiani ripropongono continuamente stereotipi grotteschi. La famiglia cattolica felice, la donna inutile che sorride sempre, il gay triste che chiede accettazione, il migrante pericoloso sono tecniche di controllo sociale. L’identificazione con modelli artefatti e la paura dell’altro producono l’addomesticamento delle masse: se ho paura ho bisogno dei pacchetti sicurezza, di una chiesa che mi imponga sensi di colpa e poi mi assolva, di consumare, perché la solitudine porta al consumo per compensazione, e lo Stato in questo modo mi rende fragile e quindi manipolabile. A me piace la verità, nella sua essenza sfuggente e mutevole. Non racconto propriamente l’attualità, ma colgo una verità diversa, tra le infinite possibili, attraverso le immagini. Il mondo in questo modo mi piace di più, perché destrutturare modelli imposti e ricrearne di nuovi mi ha reso più libera. Gli ultimi due anni li ho dedicati a fotografare il movimento queer a Roma, che lavora sulla liberazione sessuale ma soprattutto sulla liberazione del Corpo, perché il Corpo, non idealizzato e patinato, ma vissuto, imperfetto e desiderante, è il grande assente della cultura catto-occidentale.

 

La fotografia come denuncia, sensibilizzazione e provocazione. Che ne pensi?

Intendo la fotografia essenzialmente come “trasformatore” sociale. Le arti visive agiscono come i simboli: hanno con sé molteplici piani interpretativi e una potenza immediata. La provocazione è un impatto forte che ti obbliga a riflettere su qualcosa a cui tendenzialmente non vuoi pensare. Il fine però deve essere una riflessione. Mi piace la provocazione intelligente, non quella gratuita.

 

L’introduzione del digitale ha decretato in un certo senso il degrado dell’immagine. Le fotografie non sono più “uniche”, in un certo senso. Cosa ne pensi?
Siamo noi stessi riproducibili, dovremmo cercare di far pace con questo concetto. Un giorno una mia amica mi ha fatto notare che gli scolapasta prodotti dalle industrie basterebbero fino al prossimo millennio, ma continuano a produrne di nuovi ogni giorno; tanta gente non ha neanche l’acqua, figuriamoci la pasta… È stato uno spunto davvero interessante. A cosa servono tutti questi scolapasta? L’essere umano un giorno non ci sarà più, lo scolapasta sì. La sua vendetta sarà un piatto servito freddo: dominerà glorioso sopra le nostre ceneri.

 

Ogni artista porta con sé un istinto quasi animalesco, che lo obbliga a rappresentare le proprie pulsioni su una superficie significante. Perché produci immagini? Qual è quella prerogativa che accompagna costantemente le tue fotografie?
Spero di non trovare presto una risposta, probabilmente non fotograferei più.

 

C’è un artista dal quale prendi spunto?
Non me la sento, da fotografa, di citare grandi artisti, è davvero imbarazzante. Preferirei parlare di ciò che mi piace, di ciò che ha influenzato il mio mondo onirico, come ne parlerebbe chiunque a prescindere dal lavoro che fa. Cartier Bresson ed Elliot Erwitt per il bianco e nero… Poi mi ha trovato un libro illuminante, perché i libri ci scelgono, non viceversa: The ballad of sexual dependency di Nan Goldin… E tantissimo cinema, da Fellini a Tsukamoto, i neon blu di Wong Kar Wai e le nuvole di Gus Van Sant, le periferie di Pasolini, Kubrick fotografo e regista, C’era una volta in America di Sergio Leone, i super8 di Richard Kern, i film italiani degli anni sessanta e i 45 giri di mia madre. C’è di tutto, come in tutti, senza ordine né logica… Caravaggio, C.G.Jung, Banksy, i fumetti di Jason, i fuochi d’artificio e la banda del paese, Pinocchio, i Goonies, il Commodore 64 e il telefono della Sip; potrei continuare all’infinito… Roma mi ha regalato persone preziose più stimolanti di un libro d’arte; e poi l’Aquila, che è il posto dove sono nata e cresciuta. Peccato che in Italia siano tutti impegnati a stringere la mano a nani e ballerine di governo. Così i talenti scappano a Parigi, a Berlino, a Londra. L’alternativa a volte è lavorare in un call center.

 

Stai lavorando a qualche progetto in particolare?
Ad una sceneggiatura. Il passaggio in un certo senso è iniziato qualche anno fa, facendo foto di scena sui set. L’anno scorso ho realizzato insieme a Donye Sacco, editor trevigiana, ma romana d’adozione, un documentario fotografico sul progetto queer romano Phag Off. Il video è andato molto bene e ha ricevuto il suo ateo battesimo al Gender Bender Festival di Bologna. È stato un primo passo dalla fotografia al cinema, un esperimento curioso, ma non ho intenzione di abbandonare l’una per l’altro. Della sceneggiatura però non dico nulla, pare porti male parlare dei lavori prima di realizzarli… Riguardo alla fotografia, invece, mi sto interessando alle questioni di genere e ai movimenti delle donne, femministe e affini. 

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