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MARIA GIOVANNA MUSSO La fotografia come arte del riconoscimento (estratto, Le mani della città, Drago 2017)

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[...] Pajewski è un’artista da sempre interessata ai corpi, non alla loro perfezione estetica, ma alla loro diversità, al loro linguaggio, a ciò che li rende interessanti. Si è a lungo occupata dell’universo queer. A L’Aquila ha fotografato i corpi degli operai e delle restauratrici, insaccati in tute informi e imbrattate di pittura, i loro volti mescolati alla luce e alla polvere, i momenti di ricreazione, la letizia e la mestizia nei loro occhi pieni di mondo. Con lucida pietas, ha ritratto il corpo della città ferita – cumuli di macerie, immense gabbie e nuvole di polvere, transenne e impalcature – dove lo sguardo plana, trascinato in grandi campiture di bianco e nero, o si perde nei dettagli della desolazione. Il contrasto tra il respiro metallico o quello della pietra e la bellezza incerottata di fregi e di facciate, insieme alla luce dei volti di questa umanità ferita e piena di speranza, è uno dei tratti più toccanti del suo lavoro.

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L’artista ha iniziato a fotografare L’Aquila nel corso della ricostruzione12. Non ci sono in queste foto i morti del terremoto né la disperazione dei sopravvissuti.  Claudia Pajewski ha vissuto la tragedia di questo terremoto. Sa che un disastro ha molti volti e ha anche i suoi adepti: voyeuristi, cacciatori di audience, cinici affaristi. Conosce lo smarrimento delle vittime, il dolore, la perdita di tutto, l’impossibilità di dire, di fare e progettare, almeno per un po’. Ma di questo ha scelto di non fare professione. Piuttosto che indulgere sulla perdita, la rassegnazione e il vittimismo ha scelto la strada dell’attivismo artistico-politico.

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Di fronte a certe catastrofi a volte è meglio non guardarsi indietro, per non trasformarsi in una statua di sale, come accadde alla moglie di Lot. C’è voluto tempo per riuscire a fotografare i resti della città ferita. Pajewski lo ha fatto quando tutti gli altri – i mass media, i curiosi, i politicanti e gli sciacalli – erano finalmente andati via. La immagino, questa giovane donna, sola, a vagare con la sua macchina fotografica tra le ruspe e le macerie, in una sorta di pellegrinaggio laico, una specie di  dolorosa flanerie, alla ricerca di una promessa di vita e di futuro per la sua città. Quella promessa l’ha trovata tra la polvere e le ombre, nei volti degli esuli che stanno rivoltando le sue pietre, nei corpi imperfetti che ha fotografato, senza peraltro incorrere nel più allettante rischio che corre non solo l’esiliato, ma anche chi lo ritrae, cioè quello di porsi “sul lato banale della virtù” (Brodskij, 1988). Ha scelto i suoi soggetti non in base a un criterio estetico o ideologico, ma in base a un gradiente empatico, ai segni di una possibilità di incontro, ai rilievi di un dialogo muto e al di fuori delle convenzioni. L’umanità ritratta è sporca, piena di polvere e rivela la presenza di culture aliene, grumi di carne e d’anima dotati di acutezza e sensibilità, ma anche di diffidenza, ostilità, estraneità di codici. 

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Una delle foto, non contenuta in questa raccolta, ritrae tre operai in sosta “contemplativa” che, alla vista della giovane donna che li sta fotografando, sfoderano un po’ del loro armamentario di molestie. La luce in cui sono immersi è di taglio e ne valorizza l’espressione gaia e divertita. L’uomo al centro del gruppo fa un gesto osceno, esplicito. Gli altri due si aprono in un sorriso complice, girati verso il loro amico che è l’eroe del momento: quel gesto li rappresenta tutti e li delizia. Quel sentimento è corale. Lei non si scompone e scatta lo stesso, proprio nell’istante in cui la postura dei tre rivela l’antica alchimia del branco. Qui il punctum non è tanto nel gesto sconcio, bensì nel sorriso dei tre uomini, nei loro corpi curvati in una complicità gaudente che fa di loro un gruppo. 

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In termini più generali c’è sempre un cosa e un come di cui tenere conto quando si parla di fotografia. Alcune foto passano alla storia soprattutto per il cosa, perché il dato che ritraggono è rappresentativo  della categoria a cui appartiene e in qualche modo rappresenta lo Zeitgeist. A volte succede per caso, quando un fotografo si trova al posto giusto nel momento giusto. L’esempio più recente è quello di Burhan Ozbilici che ha vinto il primo premio del World Press Photo del 2017 con una foto che ritrae il terrorista islamico nell’atto di uccidere l’ambasciatore russo in Turchia. Qui il cosa è un evento a testimonianza del quale il bravo fotoreporter non si è voluto sottrarre. Rientrano in questo schema anche molte immagini dei poveri e degli emarginati, entrate nella storia della fotografia in quanto rappresentative di un’epoca. A questa categoria appartengono fotografie come Alabama Tenant Farmer Wife del 1936, di Walker Evans, che ritrae il volto di donna divenuto un’icona della povertà in seguito alla Grande Depressione. O anche la famosa Lunch atop a Skyscraper, del 1932, di Charles C. Ebbets, che immortala undici operai seduti in cima a un grattacielo di Manhattan. 

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Con riferimento al cosa, la fotografia di Pajewski può anche essere inserita in quelle correnti che spaziano dal fotogiornalismo alla fotografia sociale, in cui la soggettività passa in secondo piano rispetto al dato e alla “verità” da testimoniare. Ma se si considera il come del suo fotografare, il suo lavoro se ne discosta sia per la logica che per il risultato. Sul piano del come, c’è una fotografia che si rivolge a oggetti (anche quando sono esseri umani), e c’è una fotografia che si rivolge a soggetti. Le foto di Pajewski appartengono al secondo genere. Nel primo caso l’atto del fotografare è associabile a un gesto di “cattura” dell’immagine, a una volontà di predazione (Sontag, 1978). Cartier-Bresson, che pure aveva, secondo John Berger, uno sguardo e un amore materno nei confronti del reale, diceva: “La sola cosa della fotografia che mi interessa è la mira, prendere la mira”. Puntare un obiettivo, sparare una fotografia, catturare un’immagine, fanno parte del lessico del fotografare (Wenders, 1993). A ciò si aggiunge, specie nel fotogiornalismo e nella fotografia sociale, l’intento documentario, che spesso presuppone uno sguardo distante, uno spirito quasi da entomologo da parte del fotografo, anche quando il fine ultimo è la denuncia. 

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Nel caso di Pajewski non siamo di fronte alla ricerca di una “verità” della fotografia, com’erano invece i primi fotoreporter. Il carattere testimoniale del suo lavoro proviene, come lei dice: “dal condividere uno sguardo emozionale con la collettività”, è legato al valore di esperienza, al senso dell’incontro e di riconoscimento che costituisce il quid del suo progetto. Non c’è né furto né captazione di elementi di realtà da inseguire come selvaggina, c’è invece la traccia di un dialogo iniziato con lo sguardo e proseguito poi con le parole attraverso la raccolta di storie di vita, per avanzare oltre in un percorso di conoscenza e di scoperta. C’è, come direbbe Ferrarotti (1974), una forma di “partecipazione dell’umano con l’umano”, di condivisione e di scoperta della difficoltà d’incontro con l’alterità di fuori e con quella che sta dentro. 

 

Per Claudia Pajewski la macchina fotografica, nonostante sia un attrezzo, è uno strumento dell’istinto, ancor prima che della tecnica. È un mezzo che consente un rapporto al tempo stesso concreto e astratto con la vita. L’uso della fotografia è ciò che le consente di entrare nella materia del reale aggirando la parola e l’impianto delle mediazioni sociali, permettendole di penetrare nel corpo delle cose, nella carne del mondo.

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Da questo punto di vista Claudia Pajewski si situa sulla scia di quella categoria di artisti fotografi – come Diane Arbus, Dorothea Lange, Paul Strand, Moyra Peralta, Sebastiao Salgado – per i quali la fotografia è un incontro e la macchina fotografica uno strumento di ascolto della polifonia del mondo. Un incontro non tra il soggetto che fotografa e l’oggetto da fotografare, ma tra soggetti che attraverso la fotografia entrano in una particolare forma di comunicazione, una speciale intimità, senza la quale non ci sarebbe l’opera. 

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Nei ritratti in particolare è evidente che è in gioco “un avvicinamento umano” – come lei stessa rivela – possibile “solo se viene superata la paura dell’altro, quello fuori di sé e quello dentro di sé”. La fotografia è, infatti, anche una battaglia in cui si mettono in campo, in pochissimi istanti e silenziosamente, mondi, credenze, aspettative, emozioni e desideri che chi fotografa e chi è fotografato spesso non sanno neppure di avere (anche di questo è fatto l’inconscio ottico). L’atto del fotografare diventa così un precursore dell’esperienza, nel senso più intimo e profondo e, al tempo stesso, un riparo, fugace e momentaneo, dalla solitudine. L’atto del fotografare rompe il vetro della separazione fra chi fotografa e il suo soggetto, e in quell’istante in cui l’immagine si materializza nel mirino, accolta nello sguardo del fotografo, accade una catarsi, si rompe il vetro della separazione e si celebra un incontro, che dura un attimo ma contiene l’eternità. 

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Lo sguardo di Pajewski è uno sguardo che trae dall’ombra e convoca alla presenza, che predispone le condizioni di una relazione che inizia con la fotografia ma che conduce oltre. È uno sguardo che prima di ogni altra cosa è un atto di ri-guardo, (come è nella etimologia del termine régard), cioè di un movimento che “non si esaurisce nell’istante, poiché comporta uno slancio che dura, una ripresa ostinata” (Starobinsky, 1975). Il risultato è un particolare modo di vedere, che nasce da un incontro non casuale e non estemporaneo con la realtà dell’esserci, col Dasein, che è stato preparato a lungo, con una disciplina che Pajewski definisce Zen, e io definirei del “grande Sì”, un Sì dato alla vita, a quel che esiste in tutte le sue forme. Un Sì che viene dato anche per provocare un No in chi osserva le immagini14, ma non per questo implica l’appannarsi dello sguardo o lo schierarsi per partito preso.

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Nel lavoro di Pajewski su L’Aquila, qualcosa di simile a ciò che accade per i volti e i corpi, accade anche per la città, per il suo travaglio nella ricostruzione che in questi scatti si presenta in una luce inedita. Le sue foto riprendono il volto incerottato e ingabbiato de L’Aquila, e ne rivelano la tensione, la resistenza tragica, un’incertezza armata di transenne e di caparbietà. Mostrano la fantasmagoria dell’impalcatura, che a tratti si presenta come metafora spettacolare dell’effimero che tende a sostituirsi alla struttura. Fanno emergere il dissidio tra il provvisorio e il permanente, tra griglia di sostegno e struttura portante. Le facciate dei palazzi storici, imbalsamate dentro trappole d’acciaio o di legno, costrette a subire un intervento di chirurgia estetica, sembrano soffocare mentre aspirano al recupero della propria bellezza, per quanto deturpata. Sembra vogliano opporsi con tutte le loro forze non solo alla rovina ma anche all’impalcatura, alla sua bellezza “nuova”, prepotente e a buon mercato, al gioco dell’effimero che si fa struttura.

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Infine, lo stesso sguardo si ritrova nelle storie di vita dei soggetti fotografati riportate alla fine del testo. Sono state raccolte da Pajewski durante la pausa pranzo. Si tratta di storie essenziali, intense, con una forte impronta “visiva”: sono l’estensione, il completamento, di ciò che lo sguardo aveva già colto al momento dello scatto fotografico, ma non poteva dire fino in fondo. La parola qui non ha alcun intento didascalico. Semplicemente consente di arrivare lì dove l’immagine si ferma, di proseguire l’incontro dal luogo dell’immagine, che è l’istante, a quello del tempo della vita, al suo passato e al suo futuro. Fra parola e immagine c’è dunque un rapporto di necessità e nessuna ridondanza: entrambe dotate della stessa precisione, hanno eguale dignità, la stessa impronta corporea e visiva. 

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L’analogia formale fra fotografie e storie di vita è dovuta al fatto che esse sono il frutto di uno stesso modus operandi, hanno lo stesso ritmo, lo stesso “taglio”. Sono brevi, sintetici sprazzi di luce su una realtà altrimenti sommersa. L’unicità dello sguardo che le connota è ciò che consente tanto alla parola quanto all’immagine di prendere corpo, di farsi materia. Il testo di queste piccole storie sembra così scolpito con la stessa luce che vibra nei chiaroscuri della fotografia. L’immagine e la parola vengono “alla luce”, sollecitate dallo stesso sguardo che le estrae dall’ombra, che dà corpo e consistenza a una materia altrimenti invisibile. Le parole nascono alla storia come l’immagine nasce alla fotografia, estraendo dal caos e dal rumore frammenti di vita e di bellezza che senza questo sguardo non sarebbero venuti al mondo.

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