FABRIZIO BARCA, Finalmente incontriamo gli operai che ricostruiscono L'Aquila, 2017
La fotografia accompagna da sempre i terremoti che scuotono l’Italia. Coglie gli orologi fermi nell’attimo della prima scossa (non sempre la peggiore, mi insegnano a Venzone), la polvere dei crolli, le macerie, le voragini e le strutture contorte, i soccorritori che scavano con delicatezza, il viso dei superstiti, l’ansia nei volti di chi si interroga per “i suoi”, i crocchi notturni in attesa della prossima scossa, le assemblee e il confronto (quando è permesso), le manifestazioni di protesta, i bimbi che giocano fra ciò che resta, i volontari, i tiranti, la giungla delle impalcature ad alveare, le autorità in visita... E poi i cantieri, le gru, i cementi della ricostruzione e, di colpo, i palazzi e i paesi ricostruiti, le scuole che riaprono, gli affreschi e le chiese restaurate, le strade piene (quando la ricostruzione ha avuto l’occhio lungo) o semi-deserte (quando il rientro non c’è stato).
Sono queste le immagini che scorrono attraverso i giornali e ora sui nostri “telefonini”, e che poi ritroviamo anni dopo nei documentari, nei musei, nei libri. Raccontano la storia dei terremoti del Paese. Indietro, fino al terremoto di Messina. Avanti, fino ai terremoti che segnano i periodi della nostra vita vissuta. In queste immagini non ci sono solo sofferenza, emozione, impegno e rabbia; c’è anche lo straordinario lavoro delle persone che affrontano gli esiti del terremoto: soccorritori, volontari, ingegneri, geologi, psicologi, insegnanti, tecnici di ogni sorta, politici, infermieri, medici. Ma spesso, assai spesso, manca una figura, che pure è decisiva. Spesso, nella sequenza che ho prima richiamato c’è un salto, dalle macerie al ricostruito. In mezzo c’è il lavoro della ricostruzione. C’è il lavoro degli operai edili che ricostruiscono dietro i tendaggi che avvolgono i cantieri. E non viene narrato.
Ecco la principale novità di questo progetto, che è centrato sul lavoro operaio, di italiani e migranti, nella ricostruzione del centro storico de L’Aquila. Così, in mezzo ai cantieri, nelle strade ancora “intubate”, sui tetti, in cortili tranquilli adatti a un pasto caldo sul lavoro, all’uscita dei bar, sui ponteggi, con arnesi in mano o in gruppo, compaiono in questo volume “le mani” di chi ricostruisce la città. Compaiono i lavoratori che ogni mattino si riversano in massa dentro le mura della vecchia L’Aquila. E colmano un vuoto; non solo quello di una città dove ancora pochi sono rientrati; ma dentro di noi, nel nostro immaginario di oggi e di domani. Le foto di Claudia Pajewski rimettono al centro il lavoro operaio, il lavoro manuale operaio, gli “edili”, quella “cosa” che abbiamo collettivamente rimosso negli ultimi trent’anni, non solo dai terremoti.
Claudia Pajewski lo fa senza alcuna retorica: a coinvolgerci sono i volti, le rughe, i camici imbiancati, i gesti, gli atti, gli sguardi presi al volo, così come erano. Come scrive Maria Giovanna Musso introducendo il volume, le sue fotografie realizzano un vero e proprio “avvicinamento umano”. Guardandole noi diventiamo “Claudia”, siamo con lei in quei luoghi, ci ritroviamo oggetto noi stessi della curiosità che gli operai fotografati hanno riservato a lei nell’attimo dello scatto. Oggetto dei loro pensieri, dubbi, aperture, sospetti. E così, senza sforzo, possiamo cogliere un piccolo pezzo del loro sentire. E ci chiediamo: che si saranno detti prima o dopo? Per questo motivo, come nelle migliori raccolte fotografiche, dopo avere scorso le pagine, intravisto sguardi e notato accostamenti e dettagli, si torna a scorrere le foto e a soffermarsi a lungo, toccati, intrigati e curiosi.
Il volume anticipa questa nostra voglia di saperne di più. E sul finire ci apre squarci sulla storia di alcuni di loro. Qui esplode la centralità del lavoro, non solo come fonte di reddito, ma a un tempo di ansia e di dignità. Ecco allora Giuseppe di Secondigliano in Campania, gruista, sposato a 19 anni: “ho sempre lavorato nella mia vita perché volevo una famiglia come si deve, ma ho tanti amici con cui giocavo da bambino che per sfortuna o perché l’hanno voluto, si sono ammazzati tutti quanti tra di loro... La fortuna ti viene incontro ma sono soldi maledetti”. O Martin, di Adromé in Benin, l’operaio sul tetto, con un bimbo chiamato Amore, nato in Italia – ma ci vogliamo decidere a riconoscere che è italiano! - un percorso straordinario di lavori come cuoco, contadino, autotrasportatore, edile, e che ora aspira a guidare un autobus, nella sua L’Aquila. O Felice di Sciacca in Sicilia, che ha studiato all’Accademia di Belle Arti, fa pittura sperimentale, e per vivere “perfora”: “a volte capita di fare migliaia di perforazioni in un giorno. Con i quadri, quando ne faccio cinque di una serie, poi ho bisogno di cambiare perché non mi dicono più niente, figurati in cantiere”. O Laurentiu di Galati in Romania, dove sono rimasti moglie e due figli, che fa intonaci ed è nostalgico del comunismo rumeno; era “falegname ma quando è arrivato il bambino i soldi non bastavano più” e ora lavora “undici ore al giorno. La notte passa subito.”
Sono storie che tornano ad avvicinarci al lavoro. E che ci spingono a un’altra curiosità. Quella di conoscere la loro storia collettiva. La regolarità dei loro contratti. La loro sicurezza. La qualità dei loro “dormitori”. La loro adesione a un sindacato o, comunque, la loro capacità e scelta di avvalersene per conoscere i propri diritti e contribuire a costruire il proprio “dopo”.
Quando scrivo che abbiamo rimosso il lavoro operaio dal nostro orizzonte – e mi riferisco al lavoro manuale dell’intera industria - intendo anche questa nostra collettiva disattenzione. Che indebolisce il lavoro. Né più né meno di come la disattenzione alla battaglia contro la mafia indebolisce chi la conduce. E allora, se abbiamo avuto la fortuna o l’intelligenza di ritrovarci questo volume fra le mani, approfittiamone per andare oltre. Per informarci sui profili collettivi del lavoro operaio nella ricostruzione de L’Aquila. Se lo faremo, troveremo un sindacato robusto, che ha lavorato sodo in tutte e tre le sue storiche articolazioni, prima nel promuovere (con i fondi donati dai lavoratori di tutta Italia e collaborando con Confindustria) un disegno strategico per L’Aquila, quando nessuno ci pensava, poi nell’ottenere tutele per il lavoro, e quindi nel denunciare abusi e irregolarità. Non è un caso che la Cgil abbia poi scelto di finanziare la pubblicazione, in questo volume, dei lavori scaturiti dall’autonomo progetto di Claudia.
Questo libro di fotografie, di grande impatto emotivo, è più semplicemente bello. Il tour de force di pezzi teatrali sul lavoro, originali, da ogni Regione italiana, progettato con coraggio e lungimiranza da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri per il Teatro Argentina di Roma. Il progetto teatrale “Il buon lavoro”, avviato da tempo per l’impegno di Elisabetta Vergani. Sono esempi di una cultura che torna a parlare del lavoro subordinato e col lavoro subordinato. E che arriva a segno perché, prima che alla ragione, parla ai sentimenti: la strada maestra per influenzare la nostra visione del mondo, le nostre opinioni. E se la politica organizzata, quella dei partiti, se ne accorgesse e anch’essa, almeno a sinistra, rimettesse il lavoro al centro?
Post scriptum
Visto che ho rivendicato il ruolo dei sentimenti - che, ricordiamocelo, sono anch’essi frutto di un processo cognitivo, quello che presiede alla sedimentazione delle nostre esperienze e costruisce le nostre reazioni istintive - sarei ipocrita se non aggiungessi che le fotografie di Claudia Pajewski mi hanno dato anche un’altra emozione. Tutta personale. Per descriverla, un passo indietro. Nella primavera del 2012, con la straordinaria squadra con cui ho avuto l’opportunità di lavorare, ci mettemmo a capire come sbloccare, con urgenza, la ricostruzione dei centri storici di tutte le città del “cratere aquilano”. Dopo avere compreso, nel brutto groviglio delle accuse (rivelatesi false), le ragioni vere del blocco. Dopo avere estratto ogni possibile lezione dall’esperienza dei precedenti terremoti. Dopo avere studiato, discusso, incontrato gli aquilani, e poi studiato e discusso ancora.
Dopo avere individuato una strada per ripartire. Dopo essere partiti ed esserci convinti che ce l’avremmo fatta. A quel punto, una sera tardi, abbiamo pensato... Alle fotografie. Ci dicemmo: mettiamo 3-4 postazioni semi-fisse che traguardino i tetti della città chiusa e scattiamo una foto al giorno, messa sul web, in diretta; certo saranno foto “fredde”, ma quando finalmente i cantieri partiranno e cresceranno le gru – come da tempo era stato in periferia – tutti lo potranno vedere, e questo aiuterà a ricostruire fiducia nella ricostruzione, e la fiducia di fuori animerà quella interna alla città. Non lo abbiamo mai fatto. Il paese ha tardato assai a capire che, finalmente, L’Aquila era diventata il più grande cantiere d’Europa. Ed è così che mi sono emozionato quando, molto tempo dopo, ho visto per la prima volta una delle foto di Claudia Pajewski, le gru stagliate sulla cresta che va verso il Camicia. Sì, qualcosa di simile lo avevo già visto con i miei occhi, arrivando da Roma, poco dopo l’ultima galleria, quando prendi a scendere nella conca, mentre il Gran Sasso scompare alla vista. Ma ora era diverso. Era un’immagine ferma, “calda”, che potevo guardare e riguardare. Era – ed è - l’immagine della speranza di quegli straordinari mesi del 2012.
(Fabrizio Barca, 2017)