di Francesca Esposito, Domusweb 28 febbraio 2018
Intervista con la fotografa Claudia Pajewski che ha documentato la ricostruzione dell'Aquila, distrutta dal terremoto del 2009. Con un focus sulle mani degli operai che ricostruiscono la città.
“Si ricomincia, chissà perché, sempre dal suono”. Gru, ruspe, martelli pneumatici, scavatrici: a un certo punto, nel 2014, a cinque anni dal terremoto del 2009, il centro storico dell’Aquila iniziò la ricostruzione. “Sentire il rumore è stata la differenza. Da città storica, deserta e silenziosa, L’Aquila aveva ripreso vita. Avevamo chiuso una fase, sicuramente la più pesante, e ne cominciavamo una nuova: ci stavamo riappropriando del cuore storico”, spiega Claudia Pajewski, classe ’79, fotografa divisa fra Roma, Milano e L’Aquila, a proposito del suo progetto fotografico fresco di stampa Le mani della città, a cura di Michela Becchis e pubblicato da Drago Publishing. Il libro racconta la ricostruzione dell’Aquila attraverso 73 immagini scattate fra il 2014 e il 2017 e sarà presentato il 28 febbraio alle 18.30, all’Aquila, al Gran Sasso Science Institute che, insieme alla Filea Cgil della Provincia dell’Aquila, ne ha finanziato la stampa.
Perché scattare la ricostruzione?
Prima del recupero del centro storico, L’Aquila era una città abbandonata. Gli abitanti erano divisi in due: chi non aveva perso il legame e chi, invece, non è più riuscito a ritornare. È stata una grande cura, per noi aquilani, vedere arrivare operai e restauratori. E ovviamente sentire, di nuovo, i suoni.
Nel tuo lavoro hai mostrato la trasformazione urbana non di una città qualunque.
Gli scatti raccontano la riappropriazione di un tessuto urbano, è la storia di uno spazio vuoto che poi si riempie. Sono sempre stata affascinata dalle città, dallo scoprirle, dall’attraversarle, tendo a percepirle come un corpo dove il centro storico è il cuore, quindi la parte più emotiva e necessaria, in assenza del quale viene meno l’identità della città. Intitolare il libro Le mani della città prosegue la metafora del corpo e assume il significato per cui sono gli operai stessi a essere le mani della città. C’è un parallelismo tra le persone che la vivono e le strutture che la rappresentano.
Il titolo del libro ricorda il film di Francesco Rosi del 1963 Le mani sulla città, una denuncia alla speculazione edilizia e alla corruzione che, a partire dalla città di Napoli, raccontava la realtà sociale e ambientale dell’Italia degli anni Settanta.
Tanti aquilani hanno rivissuto il film di Rosi quando è iniziata la speculazione nella ricostruzione delle new town, quartieri periferici della città. La sospensione delle leggi in merito agli appalti ha creato una speculazione edilizia molto forte, con prezzi folli al metro quadro. Ci siamo ritrovati nello stesso copione, ma con una chiave diversa. Il titolo, poi, evoca un furto: avevo voglia di raccontare un’altra storia.
Le fotografie del tuo lavoro sono tutte in bianco e nero. Cosa comunica questo effetto cromatico?
Mi sono formata con la fotografia in pellicola in bianco e nero, come allieva della fotografa Sebastiana Papa. Per me toglie il superfluo, va all’essenza e intende essere, nel presente, come una sorta di memoria storica di una città che si sta trasformando con ritmi incredibili.
Secondo il Dossier Statistico dell’Immigrazione, L’Aquila oltre a essere la città con più migranti in rapporto alla popolazione, è anche il primo cantiere multiculturale d’Italia. Tu mostri le rughe, i denti, le mani degli operai: chi ha costruito la città?
La ricostruzione parla delle migrazioni e dei mestieri che fanno i migranti. L’Italia è anche fatta da queste persone per cui la migrazione è una condizione. Non provengono solo dall’Est Europa o dall’Africa: insieme a loro nei cantieri è pieno di pendolari dalla Puglia, dalla Sicilia. C’è e c’è stata cooperazione fra loro.
L’Aquila deve il suo impianto originario a un ideale di città ispirato a Gerusalemme. È una città sacra e ferita. Come avviene la ricostruzione?
Dopo il terremoto le case sono crollate per cause di mala costruzione, la storia, problema atavico in Italia, si è ripetuta anche ad Amatrice. Il recupero architettonico è avvenuto seguendo norme precise: L’Aquila sarà, alla fine dei lavori, la prima città storica antisismica in Italia.
Nel saggio introduttivo, Maria Giovanna Musso, antropologa dell’Arte alla Sapienza, scrive “la fotografia è una battaglia in cui si mettono in campo, in pochissimi istanti e silenziosamente, mondi, credenze, aspettative, emozioni e desideri che chi fotografa e chi è fotografato spendono non sanno neppure di avere”
È stato bello riconoscermi nel testo, soprattutto nel rapporto di parità che deve esserci fra fotografo e fotografato. L’obbiettivo può essere un’arma, se usato male. Musso ha colto la ricerca di una parità dei piani e quindi di un incontro empatico che deve nascere prima di tutto.
C’è una fotografia che ti piace di più?
Quella, molto intima, scattata dalla finestra della camera dove sono cresciuta, all’interno di un condominio danneggiato, demolito e poi ricostruito. Poi c’è una sezione dedicata alle restauratrici. Il recupero dei beni artistici presente negli edifici è la parte più commovente. È il simbolo di una grazia che altrimenti sarebbe mancata alla ricostruzione.
Uno dei progetti più iconici della ricostruzione è l’Auditorium del Parco, nato da un’idea di Claudio Abbado e progettato da Renzo Piano. Scriveva Alberto Savinio “La musica è elemento essenziale dell’educazione. Non può esservi civiltà senza musica”. Ritorniamo al suono.
Quello che è venuto meno alla città è stato avere tessuto sociale. Gli spazi dove poter fare cultura erano, nella loro assenza, fondamentali da ritrovare. È la funzione, nell’architettura, la condizione indispensabile.